Il rugby non è solo uno sport: è proprio una filosofia di vita, che può renderti un ragazzo e un uomo migliore. Ecco la testimonianza di chi l’ha iniziato da poco e di chi ne ha fatto tesoro anche in azienda

Nel rugby “Andare in meta” significa raggiungere un obiettivo, uno scopo, non senza superare qualche difficoltà. “Buttarsi nella mischia” significa far parte di un gruppo, di una folla, esserci. Sono tutti modi di dire presi in prestito dal rugby, uno sport, certo, ma soprattutto una filosofia di vita. Non si tratta semplicemente di 15 energumeni contro altri 15 energumeni in divisa che si contendono una palla ovale a suon di spallate e placcaggi. Il rugby è molto di più: è rispetto, lealtà, stima, fiducia e zero violenza.

Il rugby come metafora di vita

«C’è molto scontro fisico, ma non c’è violenza. Ci sono le azioni individuali, le corse agili verso la ‘meta’, una parola che ci fa pensare alla vita, perché tutta la nostra vita tende a una meta – ha commentato Papa Francesco qualche anno fa, ricevendo in udienza i dirigenti delle nazionali di rugby italiane – E questa ricerca è faticosa, richiede lotta, impegno, ma l’importante è non correre da soli. Per arrivare bisogna correre insieme, e la palla viene passata di mano in mano, e si avanza insieme, finché si arriva alla meta. E allora si festeggia». Una visione forse un po’ semplicistica, ma tanto veritiera. Nel rugby non esistono ex-rugbisti: chi ha giocato a rugby è rugbista tutta la vita. «Non è un caso che in inglese non si dica “rugby player”, cioè giocatore di rugby, ma “rugbyman”», dichiara John Kirwan, ex All Blacks.

Un gioco di squadra nello sport e in azienda

Uno sport in cui non è protagonista l’individuo, ma in cui la forza della squadra è il gruppo; in cui se vuoi far avanzare la palla, devi saper fare un pass(aggi)o indietro; in cui non vi sono simulazioni di gioco né di fallo. Uno sport che insegna a stare al mondo. E anche in azienda. Non è un caso che la società di formazione Conform, che da quasi 20 anni forma i dirigenti e i responsabili di multinazionali, in particolare nel settore bancario, utilizzi proprio il rugby come metafora per studiare nuove soluzioni di gestione manageriale.

Una strategia già adottata da Maurizio Calenti, una carriera da General Manager in Kraft Foods e poi Global President Meals in Mondelez International, e un passato da rugbysta in Serie A: «Spesso ho sfruttato le mie conoscenze in questo sport come base per i motivational speech al mio team. È uno sport che ben si presta per capire da dentro le dinamiche manageriali».

Due generazioni di rugby man a confront

In una sorta di intervista doppia  Maurizio racconta come il rugby è servito per gestire al meglio il lavoro, e , il piccolo Matteo Bevilacqua, 10 anni, rugbysta da quando ne ha 6, come il rugby sta cambiando la sua vita.

Come hai scoperto il rugby? Quando hai iniziato?
Maurizio: «Ho giocato come pilone, per 15 anni, dai 20 ai 35 anni, ad alti livelli, fino a che un infortunio non ha interrotto l’avventura. Mi ci sono imbattuto per caso: giocavo a basket, ma la mia grossa stazza mi ha fatto propendere più verso il rugby. Mi è piaciuto da subito, soprattutto per la morale: il lottare e il soffrire tutti insieme per raggiungere un obiettivo. Per farle capire, le dico solo che i più cari amici di oggi, che sono passati quasi trent’anni da allora, sono i miei ex compagni di squadra. Si creano legami stretti, ma soprattutto veri, basati sulla lealtà».
Matteo: «Ho 10 anni e oltre a frequentare la quinta elementare, pratico rugby da quattro anni. L’ho scelto perché mi interessava uno sport di squadra, che valorizzasse lo spirito dell’amicizia e del collaborare per raggiungere la “meta” tutti insieme. Ovviamente, i momenti che più preferisco sono la partita e il terzo tempo e di tutti i ruoli, quello centrale, che dà il via all’azione».

Cosa ti piace del rugby?
Maurizio: «Nel rugby occorre una grandissima preparazione, ma anche un grande spirito di adattamento e la capacità di sapere cambiare continuamente strategia: a volte essere allenati non basta, bisogna adattarsi alle condizioni del campo e al gioco degli avversari».
Matteo: «Ha valorizzato il mio spirito di squadra, consapevole che la partita si vince e si perde tutti insieme: infatti, a scuola svolgo con piacere i lavori di gruppo, mi piace giocare e socializzare con gli altri bambini e, se occorre, so difendermi nel modo giusto. Poi, cosa da non sottovalutare, ho conosciuto tanti amici e sono diventato decisamente più sportivo».

Cosa ti ha insegnato?
Maurizio: «Mi ha insegnato che la preparazione è fondamentale: mi sono fatto male perché dopo un periodo di pochi allenamenti, credevo che bastassero le mie conoscenze tecniche per far bene, ma così non è stato. E che occorre grande spirito di sacrificio se si vogliono vedere dei risultati. Di sicuro, mi ha insegnato a essere un uomo migliore, in campo, ma soprattutto in azienda e nella vita».
Matteo: «Il gioco di squadra, ma soprattutto a correre senza fermarmi e a non mollare mai».

In azienda
Maurizio: «Nel rugby ho intravisto da subito uno spunto per far capire meglio l’importanza delle dinamiche di gruppo all’interno di un’azienda. Quando riunivo il mio team, spesso utilizzavo delle diapositive con delle foto di azioni di gioco e spiegavo loro quanto stava succedendo, riportando poi la metafora nel concreto del lavoro quotidiano. E funzionava, perché il rugby si presta molto bene. Innanzitutto, si ha un obiettivo preciso e si vince solo quando si raggiunge la meta, fisicamente. Poi, si soffre tutti insieme, ma non per modo di dire, proprio in concreto: quando ci si fa male, ci si fa male davvero. Perché nel rugby il cuore di tutto è il gruppo: non esiste l’individuo, la star che emerge e ti risolve la partita, come può capitare in altri sport; qui si deve cooperare, l’azione la si costruisce insieme e la palla può avanzare, solo se tutti fanno il loro meglio nel ruolo a loro assegnato.

C’è un grande rispetto poi sia dell’avversario – il terzo tempo, ovvero il ritrovarsi a fare festa a fine gara, insieme al ‘nemico’, è un rito sacrosanto – e soprattutto dell’arbitro: non esiste che la sua autorità venga prevaricata dai giocatori. Inoltre, non esistono simulazioni di fallo o di infortunio, questo non significa che tutti giochino sempre pulito, rispettando tutte le regole: anche nel rugby avvengono scorrettezze, ma la differenza sta nel fatto che ci si difende in modo corretto. E si rialza sempre la testa».

 

INFO UTILI

La Federazione Italiana Rugby ha un sito denso di informazioni agonistiche e professionali

La Scuola Rugby del Parco Sempione di Milano ha formato con grande entusiasmo i ragazzi negli ultimi anni, in particolare i dragun del parc sempiun, i piccoli rugbysti dai 4 ai 12 anni, mentre Rugby Roma è la squadra più titolata della Capitale